domenica 25 novembre 2007

Il volto popolare del Vate decadente

«Penso ai pescatori della Pescara che partono con le belle paranze dipinte, prima dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto del sale in bocca», scrive D’Annunzio in uno dei cartigli che compongono il “Notturno”. È il 1916, un incidente aereo gli ha tolto l’uso di un occhio, costringendolo alla lunga convalescenza durante la quale attende alla sua opera più sofferta. In quei mesi, l’editore Bideri di Napoli gli pubblica “Parabole e novelle”, una raccolta di brevi scritti che appartengono ad altre stagioni della sua vena multiforme, mai davvero abbandonate, come dimostra l’evocazione del mattino sul mare, rivissuto quale patria dello spirito.
Dagli scritti contenuti in quella piccola edizione partenopea, escono le Favole di Natale, con le quali Solfanelli riapre una sua collana storica, “il Voltaluna”, diretta da Lucio D’Arcangelo, che continua così l’opera di riscoperta per anni condotta in collaborazione con Oreste Del Buono. È, questa, l’occasione per incontrare un D’Annunzio lontano dallo stereotipo dell’esteta prigioniero delle proprie eleganze, tanto da apparire, a una lettura superficiale, non dannunziano, almeno nell’accezione riduttiva, se non caricaturale, che il termine ha finito per assumere. Siamo infatti prossimi alle radici popolari che segnano l’esordio del narratore, testimoniate da “Terra Vergine” e dalle “Novelle della Pescara”.
Come osserva D’Arcangelo nella prefazione, in queste pagine lampeggianti D’Annunzio «racconta il tempo senza tempo della fiaba o ricostruisce, per pura magia verbale, la vita tenera e cruenta di un’antichità ideale». Ha infatti attinto alle leggende contadine della sua terra, l’Abruzzo, trascrivendo di prima mano dalle fonti orali di cui aveva diretta conoscenza, filtrate tuttavia attraverso una sensibilità squisita. Remote sopravvivenza pagane si mescolano così ai sentimenti etico-religiosi del cristianesimo, mentre le pagine si dischiudono ai registri del meraviglioso e del fantastico, che non si riscontrano altrove nella vasta produzione dell’Imaginifico.
Fa eccezione alla matrice tradizionale “Un albero in Russia”: la favola narra l’avventura natalizia di due aristocratici e appartiene, a pieno titolo, al versante mondano che aveva portato al successo il giovane D’Annunzio. L’incipit del racconto, con la «Santa Russia, cieca e selvaggia» che «empie del suo nome l’Europa inquieta», s’impone ai nostri occhi con la cupezza d’un presagio nefasto, che la lievità della scrittura non riesce a lenire.

RENATO BESANA
Libero, 25/11/2007, p. 29

giovedì 22 novembre 2007

Recensione di Renzo Montagnoli

Di questo autore fecondo ed eclettico (poeta, narratore, drammaturgo e commediografo) mi mancava solo il genere fantastico ed ecco allora che ho scoperto, grazie all’editore Solfanelli, anche questa autentica chicca, cioè cinque favole, di cui quattro attinte da leggende popolari abruzzesi.

La prima del volume, intitolata Un albero in Russia, non è una vera e propria fiaba, ma una sorta di avventura natalizia di due aristocratici russi e assomiglia più alla bozza di un normale racconto, non destando peraltro particolare interesse.

Invece, assai più importanti sono le altre quattro, una rivisitazione della tradizione popolare abruzzese tramandata oralmente e che D’Annunzio ha fissato sulla carta a modo suo. E quando dico a modo suo, pur riconoscendogli innegabili qualità letterarie, soprattutto nell’uso appropriato della lingua italiana, devo purtroppo lamentare l’eccessiva leziosità dello stile, con descrizioni sì di grande effetto, ma talmente minuziose che, oltre a non lasciar spazio alla fantasia del lettore, finiscono con il far passare in secondo piano la trama vera e propria.

Certo, è ben noto che l’eccesso è radicato in D’Annunzio, sia come uomo che come autore, e questo deriva da una vera e propria fobia narcisista, da un compiacimento di fare ogni cosa per dare risalto a se stesso. Così l’opera non acquisisce quel carattere di autonomia che la impreziosisce, ma diventa un mezzo per pervenire a un’autocelebrazione. Lucio D’Arcangelo, che ha stilato un’eccellente presentazione di questo volume, ne è ben conscio se scrive “ Al D’Annunzio narratore è stata spesso rimproverata la tendenza ad usare la descrizione a scapito della narrazione vera e propria.” E ovviamente corre al riparo, citando Henry James che dell’autore italiano ha scritto “ D’Annunzio possiede la qualità supremamente interessante del narratore: quella di fissare, per così dire, il tono di ogni gruppo di oggetti cui si avvicina, di fissarlo con densità e intensità “. Al riguardo però non bisogna dimenticare lo stile di questo scrittore americano, caratterizzato da lunghe frasi e digressioni, infarcite di aggettivi, con una minuzia di descrizioni analoga a quella di D’Annunzio e così si può facilmente spiegare il giudizio entusiasta.

Molto più personalmente ritengo che D’Annunzio poteva essere un grandissimo scrittore se fosse stato un uomo con un po’ più di umiltà, che certo gli difettava.

Comunque, le favole si lasciano leggere, pur con i limiti stilistici di cui ho detto e sono più adatte a degli adulti che a dei bimbi. Fra tutte la mia preferenza va a alla breve Il tesoro dei poveri, in cui, guarda caso, l’autore ha privilegiato la trama e il messaggio alla scrittura vera e propria. Questa favola è veramente bella e da sola vale l’intero libro, anzi consiglio vivamente di leggerla, perché il suo significato è talmente profondo che vi sembrerà di trovarvi di fronte a un D’Annunzio diverso, e forse, quando la scrisse, diverso lo fu veramente, perché antepose a se stesso una vicenda che nel finale è impreziosita da tonalità poetiche di notevole effetto.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=2917

giovedì 1 novembre 2007

Novità editoriale: FAVOLE DI NATALE

Non c’è stato movimento letterario che D’Annunzio non abbia toccato o precorso, a cominciare dal verismo per finire con la prosa d’arte. E non si può neppure trascurare ciò che di romantico in senso nazional-popolare persiste in lui.
Il contatto con le tradizioni popolari e con la poesia dialettale, maestro Cesare De Titta, segna in modo indelebile gli esordi del D’Annunzio narratore, come testimoniano Terra Vergine e le Novelle della Pescara, dove, al di là dell’impianto naturalistico, l’autore solidarizza intimamente con quell’immaginario collettivo svelato da Antonio De Nino e Gennaro Finamore nelle sue Tradizioni popolari abruzzesi.
Rare volte questo D’Annunzio ha toccato le corde del fantastico o, per meglio dire, del meraviglioso puro, e perciò queste Favole di Natale, tratte da Parabole e novelle, edite nel 1916 dall’editore Bideri di Napoli, rappresentano un unicum nella sua produzione.
Se si fa eccezione per Un albero in Russia, tutte le “favole” della raccolta attingono a quel patrimonio di fiabe popolari che dopo tanti anni e in un clima letterario tanto mutato furono sottratte all’oblio da Italo Calvino. Si tratta, in particolare, di leggende popolari abruzzesi o rielaborate in terra d’Abruzzi, alcune delle quali conosciute di prima mano.
Ma la trascrizione che ne fa D’Annunzio è una ri-creazione. Le sue “favole” recepiscono pienamente la vaghezza della fonte (orale) e sono nello stesso tempo inconfondibilmente dannunziane.

Gabriele D'Annunzio
FAVOLE DI NATALE
Presentazione di Lucio D'Arcangelo
[ISBN-978-88-89756-21-8]
Pagg. 96 - € 7,00