«Penso ai pescatori della Pescara che partono con le belle paranze dipinte, prima dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto del sale in bocca», scrive D’Annunzio in uno dei cartigli che compongono il “Notturno”. È il 1916, un incidente aereo gli ha tolto l’uso di un occhio, costringendolo alla lunga convalescenza durante la quale attende alla sua opera più sofferta. In quei mesi, l’editore Bideri di Napoli gli pubblica “Parabole e novelle”, una raccolta di brevi scritti che appartengono ad altre stagioni della sua vena multiforme, mai davvero abbandonate, come dimostra l’evocazione del mattino sul mare, rivissuto quale patria dello spirito.
Dagli scritti contenuti in quella piccola edizione partenopea, escono le Favole di Natale, con le quali Solfanelli riapre una sua collana storica, “il Voltaluna”, diretta da Lucio D’Arcangelo, che continua così l’opera di riscoperta per anni condotta in collaborazione con Oreste Del Buono. È, questa, l’occasione per incontrare un D’Annunzio lontano dallo stereotipo dell’esteta prigioniero delle proprie eleganze, tanto da apparire, a una lettura superficiale, non dannunziano, almeno nell’accezione riduttiva, se non caricaturale, che il termine ha finito per assumere. Siamo infatti prossimi alle radici popolari che segnano l’esordio del narratore, testimoniate da “Terra Vergine” e dalle “Novelle della Pescara”.
Come osserva D’Arcangelo nella prefazione, in queste pagine lampeggianti D’Annunzio «racconta il tempo senza tempo della fiaba o ricostruisce, per pura magia verbale, la vita tenera e cruenta di un’antichità ideale». Ha infatti attinto alle leggende contadine della sua terra, l’Abruzzo, trascrivendo di prima mano dalle fonti orali di cui aveva diretta conoscenza, filtrate tuttavia attraverso una sensibilità squisita. Remote sopravvivenza pagane si mescolano così ai sentimenti etico-religiosi del cristianesimo, mentre le pagine si dischiudono ai registri del meraviglioso e del fantastico, che non si riscontrano altrove nella vasta produzione dell’Imaginifico.
Fa eccezione alla matrice tradizionale “Un albero in Russia”: la favola narra l’avventura natalizia di due aristocratici e appartiene, a pieno titolo, al versante mondano che aveva portato al successo il giovane D’Annunzio. L’incipit del racconto, con la «Santa Russia, cieca e selvaggia» che «empie del suo nome l’Europa inquieta», s’impone ai nostri occhi con la cupezza d’un presagio nefasto, che la lievità della scrittura non riesce a lenire.
RENATO BESANA
Libero, 25/11/2007, p. 29
domenica 25 novembre 2007
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